Costruire senso nelle organizzazioni, ma quale?
Cambiare le organizzazioni vuol dire prima di tutto cambiare il modo in cui ne parliamo. Allora perché non riusciamo a scrollarci di dosso queste vecchie parole: meccanismi, procedure, gerarchia e regole?
Osservate queste espressioni:
- il comportamento delle persone dipende da...
- la motivazione si abbassa perché non prestiamo attenzione a...
- il clima aziendale determina la performance dei dipendenti
- il sovraccarico di lavoro ha causato una diminuzione del coinvolgimento
- l’organigramma stabilisce i confini di ogni ruolo
- devono esserci regole chiare
Sono tutte espressioni di cui facciamo grandissimo uso ogni giorno nelle aziende. Osservate in particolare le parole in grassetto: fanno tutte riferimento ad un modo di ragionare per causa-effetto, ad una visione meccanicistica fatta di regole che devono oliare i complessi meccanismi della macchina organizzativa.
Ed è strano, perché la letteratura e la vita di ogni giorno nelle aziende ci dicono a gran voce che vogliamo avere organizzazioni in cui la responsabilità sia condivisa, le persone siano al centro e la coesione tra loro prenda il posto del controllo dall'alto.
Come mai allora facciamo così fatica a toglierci di dosso questa visione dell'organizzazione come una macchina da perfezionare?
Il primo motivo, il principale, è che la visione meccanicistica è sorella gemella del nostro senso comune. Sono nate in momenti diversi, ma dalla stessa matrice di conoscenza e continuano ad influenzarsi l'un l'altra. La matrice è questa: là fuori c'è una realtà indipendente dal nostro modo di osservarla.
Pensateci: quante volte quando parliamo di qualcosa, critichiamo qualcuno o esponiamo un problema, lo facciamo pensando che siamo noi a configurarlo così? Raramente. Ci viene spontaneo pensare che il problema sia là fuori e che noi stiamo tentando di capirlo e di risolverlo. Per farlo solitamente tiriamo fuori le categorie di conoscenza più facili da applicare: causa, effetto, spiegazione e previsione. A cui si accompagnano le parole in grassetto di cui sopra.
La storia scientifica ci ha insegnato però che non c'è una realtà là fuori: siamo noi, a seconda degli occhiali che indossiamo, a costruirla.
Thomas Kuhn parla a questo proposito di educazione scientifica, che è un po' quello che accade anche alla nostra educazione percettiva (gli esperimenti della Gestalt hanno molto da dirci in proposito): uno studente alla prime armi guardando una carta topografica con curve di livello, vedrà solo linee confuse; quando diventerà un cartografo esperto, in quelle stesse linee vedrà la rappresentazione di un terreno.
La realtà la costruiamo, non la fotografiamo. Estremizzando un po' - ma neanche tanto - non ci sarebbe realtà senza la nostra "visione". La cosa da sottolineare è che, anche il nostro percepire richiede un paradigma, che in qualche modo è influenzato da tutto ciò che abbiamo visto prima e che crediamo sia utile vedere d’ora in avanti. Una sorta di paradigma di conoscenza che ci serve per evitare quella che William James chiamò "una assordante confusione da far girare la testa".
Noi costruiamo la realtà attraverso il linguaggio; a volte mettiamo il pilota automatico e lasciamo che sia il senso comune a guidarci. È importante invece avere un metodo per mantenere attiva e consapevole la costruzione del senso che vogliamo e che ci serve (la cultura d'impresa passa sempre da qui!).
I pochi concetti che racconterò possono sembrare teorici, ma dopo averli letti spero vi serviranno a vedere in modo diverso le "cose organizzative". Perché questo è il campo dove ci muoviamo: cambiare il modo in cui osserviamo e parliamo dell'organizzazione, per poterla poi cambiare davvero.
Il linguaggio costruisce senso
Il linguaggio ci serve per costruire il senso che vogliamo dare alle cose. Nelle organizzazioni risultano evidenti i due piani in cui il discorso si manifesta:
- un discorso ordinario, che ha natura colloquiale: le conversazioni, i dialoghi, lo scambio di opinioni tra colleghi;
- un discorso scientifico che ha natura specialistica: la definizione di principi, valori, e obiettivi; la mission, il modello organizzativo, i ruoli.
Il linguaggio in azienda ci serve quindi sia a valle, nei discorsi quotidiani, sia a monte per esprimere il pensiero e l’impianto metodologico che sorregge l'azienda stessa. E qui la cosa si fa interessante perché discorso ordinario e discorso scientifico non vanno in parallelo: sono strettamente legati, influenzandosi a vicenda.
Interrogarsi sul proprio discorso ordinario non è sufficiente, perché oltre alla scelta delle parole in base ad un principio di correttezza linguistica, dobbiamo pensare alla scelta delle parole in base ad un principio di correttezza conoscitiva:
- uso modalità interattive pertinenti e adeguate al contesto?
- so legittimare il mio ruolo nell’interazione?
- so legittimare quello degli altri?
- so descrivere gli eventi, senza giudicarli?
- so analizzare i dati in riferimento all’obiettivo per cui li ho raccolti?
Sono tutte domande che trovano risposta non nelle regole della lingua che parliamo; bensì nelle definizioni, nelle categorie e nei principi che l’azienda condivide con noi.
L'organizzazione flessibile diventa uno slogan se continuiamo a dire che servono ruoli per definire bene i confini. Così come volere le persone al centro diventa una parola vuota se a livello organizzativo non c’è un metodo (scientifico) di condivisione, collaborazione e distribuzione della responsabilità.
Per questo, oltre a guardare le parole, dobbiamo poter guardare il processo di conoscenza che attiviamo con le parole stesse.
Ma come si fa? Dobbiamo diventare competenti nell'analisi del testo che produciamo, saper individuare che alcune parole fanno parte di un paradigma che frena la nostra voglia di innovazione e saper fare (e farci) le domande giuste.
Il linguaggio è il nostro strumento di conoscenza. Ed è lo spartiacque tra il senso comune e il senso scientifico.
Senso comune e senso scientifico
Non a caso parlo di "senso": il discorso ordinario e il discorso scientifico danno entrambi un senso alla realtà, ma si distinguono per l'approccio conoscitivo - quindi per il modo in cui usano il linguaggio.
Il senso comune, quello in cui siamo immersi ogni giorno, è un discorso che procede per affermazioni: definisce e sancisce qual è la realtà, senza bisogno di argomentarla e spiegarla. Proprio perché è "comune", le sue affermazioni sono autoreferenziali: ciò di cui il senso comune parla è reale di per sé. È una realtà di fatto.
Berger e Luckmann lo dicono molto meglio di me:
La realtà della vita quotidiana viene data per scontata come realtà. Essa non richiede una verifica ulteriore oltre la sua semplice presenza. Essa c’è semplicemente come attualità auto evidente e indiscutibile.
E il senso scientifico? Il senso scientifico è un discorso che procede per asserzioni: definisce, sì, ma lo fa argomentando con riferimenti ben precisi: stabilisce un proprio vocabolario e dei principi in base ai quali procedere.
Le teorie scientifiche sono strutture linguistiche.
Esattamente come le teorie comuni.
Ma le prime esplicitano, condividono, argomentano. Le seconde "tirano dritto" e chi ha capito bene, altrimenti pazienza.
Costruire, scientificamente, il senso comune
Ciascuno di noi sceglie e agisce seguendo i propri principi in modo istintivo e coerente, per formazione e cultura; quasi mai per scelta consapevole. Non fraintendetemi: non penso che siamo governati dalle scelte altrui, ma abbiamo talmente interiorizzato un certo tipo di cultura, che la diamo per scontata. E non sentiamo il bisogno di esplicitarla; fino a non esserne più capaci, fino a convincerci che il nostro modo di vedere le cose è unico.
E invece dovremmo allenarci a fare il contrario: ricordarci che i nostri principi conoscitivi sono i presupposti in base ai quali vediamo le cose e più li conosciamo, più possiamo costruirli con consapevolezza. Ed è questo che permette alle persone di collaborare, di prendersi delle responsabilità, di conoscere profondamente il proprio ruolo e di fare proposte costruttive.
Costruire scientificamente il nostro senso comune vuol dire innanzitutto che possiamo pesare e valutare le nostre argomentazioni; migliorarle oppure dismetterle, in favore di altre.
In ambito professionale, saper osservare con occhio scientifico i nostri discorsi vuol dire poter:
- chiarire - prima di tutto a noi stessi - perché crediamo certe cose e le facciamo poi in un certo modo;
- chiarirlo anche agli altri, quando ci chiedono spiegazioni;
- creare un "perché" condiviso, se siamo in grado di spiegare il nostro e capire agevolmente quello degli altri.
Tutto questo porta dei vantaggi enormi per la coesione tra le persone, che si traduce in benessere, efficacia ed efficienza organizzativa.
Usare, comunemente, il senso scientifico
Lo so, quando si parla di scienza le persone spesso si irrigidiscono: temono che la parte umana, sentimentale e relazionale svanisca in asettiche misure. Succede soprattutto per le cose "umane". Ma vi viene in mente qualcosa di più umano di questo? Lavorare sui nostri discorsi per esserne più consapevoli e poter costruire interazioni sane ed efficaci?
Eppure, siamo ancora diffidenti verso qualsiasi metodo che ci possa insegnare come leggere scientificamente il nostro senso comune. Siamo ancora legati ad una concezione fredda e distaccata della scienza e convinti che il discorso ordinario sia qualcosa che non ha niente a che fare con il discorso scientifico in corso in una certa epoca. Non ci preoccupiamo di conoscerlo, perché ci basta il nostro.
Ma ci sbagliamo. Gargani, nell'introduzione a Della Certezza di Wittgenstein, scrisse:
anziché costituire un atteggiamento naturale e spontaneo, il senso comune è l’espressione di una degradazione scientifica che le teorie meccanicistiche hanno messo in opera.
Il senso scientifico deposita sempre il proprio sapere nel senso comune. E con i propri paradigmi di conoscenza incornicia le parole che usiamo e i concetti che applichiamo. Lo fa però solo se il senso comune glielo consente.
Ricordiamocene e cerchiamo di praticare sempre un senso critico nel modo di configurare le cose.
La buona notizia è che i paradigmi scientifici si sono evoluti e sarà uno dei temi di questo blog.
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Qualche titolo che mi ha accompagnato in questi anni e che ho rispolverato per scrivere questo articolo.
Filosofia del discorso, di M. Gennari
La struttura delle rivoluzioni scientifiche, di T. Kuhn
Della Certezza, di L. Wittgenstein (e tutto il resto)
L’archeologia del sapere, di M. Foucault
L’ordine del discorso, di M. Foucault
La realtà come costruzione sociale, di Berger & Luckmann
e tutti i libri scritti da e con il Prof. Gian Piero Turchi sulla Scienza Dialogica - in particolare:
Metodologia dei dati informatizzati testuali. Fondamenti di teoria della misura per la Scienza Dialogica
e
Psicologia delle differenze culturali e clinica della devianza.
Di grande ispirazione oggi anche Radical Collaboration, di M. C. Lavazza e Sense-making, di L. Rosati.
Perché l’applicazione della teoria non sarebbe possibile senza la teoria stessa. In ogni campo.
Buona lettura!

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