Persone, ruoli e identità
Definire e collocare i ruoli nell'organigramma è un passaggio fondamentale per l’azienda, ma non può essere il punto di arrivo. Sarebbe come andare a teatro solo per vedere la trama scritta sulla locandina.
Probabilmente non è un caso che la parola persona, nel suo significato originale, volesse dire maschera. Questo implica il riconoscimento del fatto che ognuno sempre e dappertutto, più o meno coscientemente, impersona una parte...È in questi ruoli che ci conosciamo gli uni gli altri; è in questi ruoli che conosciamo noi stessi. [...]. Alla fine la concezione del nostro ruolo diventa una seconda natura e parte integrante della nostra personalità. Entriamo nel mondo come individui, acquistiamo un carattere e diventiamo persone.
Questa citazione - tratta da R. E. Park, Race and Culture nel libro di Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione - ha ispirato parte della riflessione nata nell'articolo sulle soft skills. La voglio riproporre qui per intero perché contiene parole chiave importanti per me per parlare di persone e di ruoli: un argomento che uso spesso quando si tratta di risolvere conflitti, migliorare la comunicazione o aumentare l'efficacia di un team.
Le organizzazioni fanno un grande sforzo per costruire l'organigramma, condividerlo, generare consenso e poi… dalla carta si passa all'azione e ci si accorge che le persone interpretano, stravolgono, personalizzano letteralmente il proprio ruolo; e che nascono conflitti, anche quando sembrava di aver messo nero su bianco tutto quel che serviva.
Questo articolo nasce da qui, dalla presa di coscienza che a volte la trama è perfetta, ma non sempre abbiamo gli strumenti per gestire quello che accade quando andiamo in scena.
Sarà un viaggio con il microscopio in mano. Ad ogni tappa faremo uno zoom un po' più in profondità: da alcuni concetti ne nasceranno altri, da alcune parole sorgeranno molte domande e da altre (spero) alcune proposte.
Persone si diventa, non si nasce
Voglio partire proprio dalle persone, snodo fondamentale oggi per le aziende che, giustamente, si sono accorte che l'etichetta risorse umane rimanda ad un vecchio paradigma che di umano ha ben poco. Vorrei provare ad offrire un punto di vista particolare, che parte da quel diventiamo persone che chiude la frase di Park.
Concetto semplice quanto efficace: ognuno di noi costruisce (questa è una parola chiave) la sua identità (altra parola chiave) impersonando una parte. Una parte diversa a seconda dei contesti, dei ruoli, dei propri obiettivi e delle persone con cui ci relazioniamo. Certo, ognuno di noi mantiene una sorta di coerenza, ma anch'essa dipende da chi sta dall'altra parte - che può contribuire a consolidarla o a smontarla.
Ecco perché alla parola personalità - che rimanda a qualcosa di statico - preferisco identità personale - che rappresenta molto meglio la natura relazionale di ogni nostra sfumatura. Vedremo inoltre come parlare di identità aiuti anche l'analisi delle dinamiche tra i ruoli in azienda.
Un ruolo con personalità?
La psicologia ha costruito il proprio impero attorno alla personalità: tratti distintivi, caratteristiche personali e comportamenti tipici che incasellano le persone in categorie ben definite. Un approccio che ha molta influenza in ambito organizzativo, dove le attività di formazione e coaching hanno spesso l'obiettivo di far leva sulle potenzialità nascoste della persona per spianare la strada ad una maggior efficacia e ad una miglior prestazione.
Ma c'è un aspetto critico: la persona è sempre immersa in un tessuto relazionale che ne influenza pensieri e comportamenti; quantomeno quindi le sue potenzialità sono in relazione alle condizioni in cui si trova, non sono solo racchiuse nella sua testa. A maggior ragione nel contesto aziendale, che ha regole e obiettivi - come qualsiasi realtà sociale - che guidano processi di socializzazione e di legittimazione dei ruoli.
Insomma, la questione persona-ruolo è tutt'altro che semplice: come stanno insieme le due cose? O cosa le distingue? Perché si insiste tanto sulle caratteristiche personali quando si parla di migliorare il modo in cui lavoriamo? Un ruolo può avere personalità?
Una strada per rispondere a queste domande è quella di analizzare la definizione di ruolo e non perdere di vista le parole chiave.
Un passo indietro: cos’è un ruolo?
L’interazionismo simbolico da una definizione di ruolo utile a cogliere la complessità che questa parola porta con sé:
Il ruolo è l’atteggiamento assunto dalla persona in rapporto alla funzione esercitata ed alla interazione tra i comportamenti dei componenti del gruppo o sistema sociale di cui egli fa parte.
A leggerla di fretta si rischia un cortocircuito mentale, ma con un po' di attenzione emergono parole chiave importati. Un ruolo:
- è un atteggiamento,
- in rapporto ad una funzione
- e alle interazioni
- in un sistema sociale
Niente a che vedere con tratti distintivi, personalità, caratteristiche individuali. Anzi, ogni ruolo esiste in relazione a qualcosa; ed è dinamico: cambia a seconda di ciò che fa e delle persone con cui interagisce.
La vita movimentata di un ruolo
La citazione iniziale di Park serve a ricordarci che la nostra vita è una rappresentazione, come se fossimo gli attori di una pièce teatrale. Lo stesso vale per la vita nelle organizzazioni dove organigramma, job title e job description fanno da copione: tutti conoscono la trama, sanno quale parte devono recitare e quando andare in scena. Poi c'è il palcoscenico, dove prendono vita le mansioni, le strategie di relazione e le conversazioni quotidiane.
L’interazionismo ci offre di nuovo qualche elemento teorico utile quando ci spiega che ci sono sempre due modi per legittimare un ruolo:
- uno attraverso lo status (il copione)
- l’altro attraverso l'interazione (il palcoscenico)
Entrambi sono necessari ma solo il secondo ci fa ottenere la vera legittimazione. Avere uno status infatti non basta: è necessario dal punto di vista organizzativo, ma se non si adottano le corrette strategie di interazione, quello status si svuota di significato. Fuori di metafora: le organizzazioni sono piene di leader sulla carta, scalzati da leader di fatto che si sono guadagnati la legittimazione nelle interazioni quotidiane. Lo stesso può accadere per tutti gli altri ruoli.
Perché? Quasi sempre perché si assegna un ruolo ma poi non ci si cura di costruirlo. E si lavora poco su quelle competenze che io chiamo gestionali,ovvero su tutte le modalità interattive che il ruolo adotta per perseguire gli obiettivi che gli sono stati delegati. Competenze che devono sempre discendere da un modello organizzativo e operativo condiviso.
Le competenze gestionali e l’identità di ruolo
Torno a parlare di competenze gestionali proprio perché sono quelle che danno al ruolo la legittimazione di cui ha bisogno:
- saper descrivere
- riferirsi ad obiettivi terzi
- anticipare scenari critici
- proporre soluzioni
denotano che la persona non si limita a replicare un copione già visto, ma lo usa in termini analitici e strategici.
Perché un leader non viene riconosciuto come tale? Non c’è una risposta univoca a questa domanda, ma sicuramente le possibili risposte dipendono tutte:
- da come l'azienda definisce un leader
- da come la persona pensa debba essere un leader
- da come usa le sue competenze per essere un leader.
Tre elementi mai intercambiabili: un ruolo infatti non è solo la somma di competenze, ma è il risultato di auto ed etero attribuzioni di significato, che a loro volta innescano modi diversi di pensare ed agire quel ruolo. Per questo, per costruire l'identità di ruolo, non basta osservare l’approccio della persona ma dobbiamo lavorare su più piani. Per riuscirci abbiamo bisogno di:
- obiettivi terzi - non personali
- un modello organizzativo e operativo di riferimento
- attività di analisi dell’errore- retrospettive - dove tutti i ruoli possono analizzare in modo critico il loro lavoro e anticipare o promuovere cambiamenti
- una cultura organizzativa dove i ruoli siano non solo caselle di un organigramma ma snodi di conoscenza
- formazione e supervisione costante sulle competenze, soprattutto quelle gestionali
Senza questi riferimenti, i ruoli continueranno certamente ad esistere ma indosseranno molto più spesso la maschera dell’identità personale: faranno ricorso solo all’esperienza passata, valuteranno le situazioni in base ad impressioni personali, molto probabilmente stabiliranno da soli la priorità dei propri obiettivi. Oscilleranno, in sostanza, in mancanza di un terreno stabile che dia un indirizzo per gestire gli imprevisti, i cambiamenti o semplicemente le cose che accadono e che non sempre si possono classificare come bianche o nere.
Collocare i ruoli è condividere con loro la conoscenza organizzativa, non solo posizionarli in un organigramma
Un attore per far vivere il suo personaggio deve impersonare la parte, non solo recitarla. E per farlo deve conoscerne la storia e riuscire a renderla credibile, attraverso le sue competenze di recitazione.
In azienda, questa è la parte più difficile ma anche la più stimolante: collocare i ruoli vuol dire formare costantemente le persone ad impersonarli, offrire loro un modello organizzativo (non solo un organigramma) e condividere anche le sfumature teoriche che ho cercato di descrivere in questo articolo. Sfumature che diventano strumenti di lettura e analisi del proprio modo di stare in azienda, per gestire i conflitti, interagire in modo più efficace e perseguire gli obiettivi delegati.
Lavorare con le persone per me vuol dire questo: non basta dar loro una trama perfetta, bisogna renderle consapevoli e attive nel loro percorso di crescita professionale; e sgomberare il campo da quella confusione che si crea quando si lavora su ipotetiche caratteristiche personali - per lo più emotive - invece che offrire alle persone una cornice chiara entro cui poter inquadrare il proprio ruolo e un metodo condiviso per poterlo svolgere correttamente.

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