Quante cose sappiamo e quante poche, invece, ne conosciamo.
La differenza tra sapere e conoscere è sottile, impercettibile, ma rivoluzionaria. Ed è tutta racchiusa nelle parole "perché" e "come".
I temi
Le parole
Negli ultimi articoli ho iniziato a parlare di pensiero scientifico applicato alle "questioni organizzative", nel tentativo di trovare un piedistallo solido su cui poggiare le poche risposte che riesco a dare, di fronte all'incertezza delle interazioni umane.
Perché spesso ci facciamo domande a cui non sappiamo rispondere. E quasi sempre non sappiamo rispondere per la semplice ragione che ci facciamo le domande sbagliate.
Domande senza risposta
Non so voi, ma a volte mi ritrovo senza parole di fronte alle innumerevoli domande che, presto o tardi, molti di noi si fanno sul perché le cose non vanno come dovrebbero. Soprattutto sul lavoro, quando abbiamo a che fare con piani strategici, colleghi bizzarri, visioni divergenti, ecc…
Perché le cose non vanno come dovrebbero? Perché, se le regole sono chiare, non vengono rispettate? Perché, anche se ho fatto di tutto per accontentare i dipendenti, loro continuano a lamentarsi? Perché, nonostante l’aumento, non producono come vorrei? Perché non leggono le email, anche se scrivo "importante"? Perché facciamo le riunioni, se poi ognuno fa quel che vuole?
La risposta che risuona sempre nella mia testa è una e molto semplice: stiamo sbagliando la domanda. Di "perché" possiamo trovare uno, nessuno e centomila ma difficilmente ci serviranno a qualcosa.
L’epoca dei perché è finita da un bel po', anche se il nostro senso comune ancora non se ne è accorto o preferisce trovare un perché qualsiasi, purché sia… un perché!
Ora, anche se questa è la risposta che risuona sempre nella mia testa, io stessa a volte faccio fatica a farci i conti, dato che - come tutti - anche io sono vittima di quella che Nassim N. Taleb nel Cigno nero chiama fallacia narrativa:
Abbiamo una limitata capacità di osservare sequenze di fatti senza aggiungervi una spiegazione, una relazione. Perché la spiegazione tiene insieme i fatti e contribuisce a renderli più sensati. Noi esseri umani ci inganniamo costantemente elaborando fragili resoconti del passato e convincendoci che siano veri.
Non solo, aggiungerei! Abbiamo la tendenza anche a costruire previsioni sulla base delle spiegazioni che ci siamo dati, creando altrettanto fragili proiezioni future di quel che sarà.
Sia chiaro, nessuno vuole fare il processo al perché - Taleb stesso lo utilizza, come tutti noi: ma una cosa è usarlo in modo retorico, narrativo o discorsivo; un'altra è usarlo in senso causale, incaponendoci nella ricerca del colpevole, di qualcosa da aggiustare e di una soluzione che guarisca tutti i mali.
Ed è qui che cadiamo: la certezza, la verità e l’assolutezza delle cose sono concetti che ci hanno salutato ormai da tempo. E la storia del pensiero scientifico ce lo insegna bene: ogni perché ha sempre dato spiegazioni temporanee, passibili di analisi critica, poi inevitabilmente sorpassate da spiegazioni più efficaci e attuali.
Insomma, come vado dicendo da un po', il nostro senso comune ha molto da imparare dalla scienza - anche se non siamo fisici, astronomi o matematici.
La scienza è cambiamento, non certezza
Fare scienza è un modo di conoscere. Anzi, di costruire.
Fare scienza vuol dire ridisegnare in modo più efficace ciò che sappiamo del mondo; vuol dire anche darci risposte non scontate e non fidarci di ciò che dicono tutti; vuol dire, infine, abbracciare l'incertezza e nutrirsi di dubbi e senso critico. Fino ad accettare, talvolta, la mancanza di risposte.
Dovremmo ricordarcene quando ci chiediamo costantemente "perché": il nostro perché - qualora lo trovassimo - sarà parziale, mai risolutivo e il più della volte anche inutile a cambiare davvero le cose.
Ma come usiamo tutto questo nelle nostre organizzazioni?
Sapere o conoscere?
Intanto potremmo iniziare con il ricordarci che una cosa è sapere come dovrebbero andare le cose e una cosa è conoscere il modo in cui vorremmo che andassero.
C'è parecchia differenza, anche se per noi i verbi sapere e conoscere sono spesso sinonimi. E invece…
Sapere deriva dalla radice latina della parola scienza - scio - che vuol dire, appunto, sapere. Colui che sa è colui che ha la verità in mano, una verità difficile da contraddire, per due ragioni: la prima è che il sapere rimanda al risultato di un'azione conoscitiva, sconosciuta ai più; la seconda è che il sapere è qualcosa di statico, che una volta ottenuto tenta in tutti i modi di fossilizzarsi.
Da qui derivano tutte quelle credenze relative al fatto che qualcosa di scientifico deve essere inconfutabile e vero sempre.
Mentre noi cerchiamo di saperle, le cose cambiano. Così, gli eventi sono sempre qualche passo avanti a noi e il nostro perché è - per così dire - già "passato di moda".
Se osserviamo meglio la storia della parola scienza, c'è però un altro mondo possibile: quello che deriva dall'etimo greco della parola - gnosis, che vuol dire conoscere. Colui che conosce è colui che ricerca, studia, approfondisce e condivide. Conoscere è un'azione che rimanda al processo stesso con cui ci si avvicina alle cose. La conoscenza è necessariamente dinamica: costruisce ciò che al contempo vuole osservare e studiare.
La conoscenza, quindi, è per forza di cose sempre "sul pezzo".
Questo è l'insegnamento che le nostre organizzazioni dovrebbero tenere a mente e iniziare a farsi domande diverse, soprattutto chi nelle organizzazioni si occupa delle persone.
Come interagiscono le persone, non perché lo fanno
Torniamo ai perché dell'inizio e proviamo a farci domande diverse.
Come vengono percepite le regole dalle persone? Come faccio a renderle più chiare? Come posso organizzare il team senza incastrarlo in regole poco efficienti? Come posso ascoltare e cogliere le esigenze dei dipendenti? Come posso interagire con quella persona per rendere il nostro lavoro più efficace? Come posso scrivere le email affinché catturino l'attenzione necessaria? Come imposto le riunioni per fare sì che risultino utili?
Si vede anche a colpo d'occhio: se smettiamo di chiederci perché, ci facciamo molte più domande e da una prospettiva diversa! Non andiamo più a caccia delle colpe degli altri e ci prendiamo la responsabilità di come noi possiamo migliorare ciò che non va.
E c'è un altro vantaggio: di fronte ai come siamo sempre in movimento per trovare un modo migliore o diverso di fare le cose.
Le nostre parole lavorano per noi
Le nostre parole lavorano per noi in modo sottile, impercettibile, ma rivoluzionario. Quando ci chiediamo come invece di perché, cambia anche la nostra relazione con le cose: non osserviamo più dall'esterno, ma automaticamente veniamo coinvolti nel costruire quello che osserviamo.
Smettiamo di pensare al passato e ci proiettiamo verso il futuro che vogliamo o che ci serve.
Un futuro che sarà incerto, sempre e comunque. E probabilmente conterrà altre domande a cui forse non sapremo rispondere. Ma solo così riusciremo ad essere meno certi delle cose che sappiamo e solidamente in equilibrio sul modo in cui le conosciamo.

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