Soft skills sotto la lente di ingrandimento
Perché le chiamiamo "soft" skills se sono così importanti? Perché non c'è accordo sulla loro definizione? E perché, alla fine, non c'è mai budget abbastanza per loro?
I contorni sfumati delle soft skills
Quando incontro imprenditori e manager in difficoltà, quando propongo attività di coaching, quando progetto percorsi di crescita: nella giornata lavorativa di un HR la parola soft skills si presenta in più occasioni, con diversi vestiti e per obiettivi differenti.
Ma ogni volta si presenta circondata da un alone di dubbio e perplessità, con contorni sfumati. E raramente l'imprenditore o il manager, se sceglie di investirci, lo fa con piglio sicuro e deciso. Perché?
È un atteggiamento di dubbio e perplessità a cui sono abituata sin dall’inizio dei miei studi di psicologia. Io stessa sentivo un senso di inferiorità verso i miei compagni di viaggio: informatici, chimici, matematici avevano i numeri, le formule, la misura; io avevo i "sembra", "può essere", "dipende dall’approccio".
Da allora ho iniziato a porre sotto una lente critica le parole che noi psicologi utilizziamo.
L'esattezza delle parole che usiamo
Le parole, qualsiasi sia la nostra scienza di riferimento, non sono mai solo parole: entrano in un universo conoscitivo che richiede definizioni precise e criteri di misurazione.
A guardare però da vicino il mondo scientifico ci accorgiamo che esiste una sorta di gerarchia: esistono scienze esatte - informatica, chimica, matematica - che formano le nostre competenze tecniche (hard skills); e scienze meno esatte - psicologia e sociologia su tutte - che formano le nostre competenze non tecniche (soft skills).
Perché meno esatte? Perché - in virtù di quei "dipende dall’approccio" - soffrono di un grande problema: ciò di cui parlano non è mai uguale a sé stesso.
Un problema che le scienze esatte hanno risolto con una semplice operazione di partenza: hanno trasformato le parole in concetti.
Noi psicologi invece lasciamo spesso le parole al significato più comune e così ci togliamo l’ossigeno da soli. E così, chiamandole “soft”, le confiniamo ad un universo linguistico molto distante da quello dei dati e numeri richiesti nel contesto aziendale. Inoltre: le identifichiamo con caratteristiche psicologiche - empatia, ascolto, resistenza allo stress - esponendole così al destino di ogni costrutto psicologico: l’uso del linguaggio ordinario ne modifica il valore nell’uso stesso.
Per capirci: quando diciamo ad una persona che l’empatia è fondamentale per essere un buon leader, molto probabilmente la nostra definizione di empatia sarà diversa dalla sua.
Che c’è di male nelle caratteristiche psicologiche?
Nulla. Ma appartengono ad una dimensione diversa da quella del ruolo. Seppur sia fuori d’ogni dubbio che per svolgere il nostro ruolo in azienda dobbiamo sempre fare i conti anche con la nostra persona.
Che relazione c’è allora tra la persona e il ruolo?
Il significato originale della parola persona era maschera. Questo vuol dire che ognuno sempre e dappertutto, più o meno coscientemente, impersona una parte.
La metafora teatrale ci viene in aiuto: ogni giorno indossiamo diverse maschere e ognuna di esse ha peculiarità e contesti ben specifici. Per questo non possiamo utilizzare qualità personali per definire competenze professionali. O meglio: possiamo farlo (e infatti lo facciamo) ma perdiamo di credibilità e legittimazione.
È bene tenere distinte le due maschere e considerare il ruolo per quello che è: una maschera che indossiamo, una parte che recitiamo, con obiettivi, competenze, attributi e significati suoi peculiari. Qualcosa che costruiamo con dedizione, fatica e continuo allenamento. Che nel contesto aziendale vuol dire formazione di competenze ben precise, non solo accumulo di esperienza.
Possiamo avere decenni di esperienza lavorativa e competenze tecniche altissime ma non essere autonomi nella gestione del nostro lavoro, non saper delegare, non saper contestualizzare la comunicazione, non saper fare scelte strategiche, non saper gestire un team. Non avere cioè competenze gestionali.
Le competenze gestionali e il nostro linguaggio
Le competenze gestionali appartengono ad una dimensione interattiva del ruolo, ben diversa da quella strettamente personale delle soft skills.
L'interazione quindi è il luogo in cui ogni competenza si esprime. Ad esempio: gestione del team è una competenza che racchiude in sé diverse micro competenze, tra cui saper gestire i conflitti interni; ovvero: saper fare le domande giuste, aiutare le persone a descrivere gli eventi in modo oggettivo, evitare i giudizi. E così via.
Domande, descrizioni, giudizi sono tutti modi di interagire, modi in cui il linguaggio si manifesta. Se vogliamo quindi formare questo tipo di competenze e misurarne l'efficacia, dobbiamo adottare un diverso paradigma - basato sull’uso del linguaggio; così, anche le scienze meno esatte, le scienze -logos (ora posso dirlo!) diventeranno esatte e potranno godere della legittimazione che meritano.
La punta di diamante del ruolo
A differenza delle soft skills, considerate spesso un accessorio e non parte fondamentale del ruolo, le competenze gestionali sono la parte più difficile da allenare e quindi la più prestigiosa.
Per questo le chiamo la punta di diamante del ruolo, perché spingono anche le competenze tecniche su un livello superiore. Vestono il ruolo di consapevolezza, padronanza e responsabilità. Quest'ultima penso sia la ricaduta più interessante: grazie alle competenze gestionali ogni ruolo avrà la responsabilità di organizzare, gestire, valutare, proporre. Se pensiamo alle organizzazioni orizzontali e all’esigenza sempre più viva di formare ruoli in grado di essere autonomi e responsabili, questo aspetto diventa oggi più importante che mai.
Il cambiamento ha bisogno di respiro
Questo articolo è nato dal voler portare un contributo critico su una tematica universalmente condivisa (l’importanza delle soft skills) ma, man mano che scrivevo, mi sono accorta che le cose da dire sarebbero molte, molte altre.
Come tutte le proposte di cambiamento, però, anche questa ha bisogno di respirare e sedimentare. Perciò mi fermo qui, per darci il tempo di ragionarci su.
I prossimi passi saranno capire come, in base a questa proposta, possiamo diffondere cultura organizzativa, creare valori condivisi e misurare l’efficacia delle azioni formative che facciamo in azienda.
Per arrivare, infine, ad avere una conoscenza che non susciti più dubbio e perplessità, bensì solidità, curiosità e convinzione.

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